Alla fine del 2024, i fondi classificati come Articolo 8 e Articolo 9 rappresentano circa il 50% del totale degli asset in gestione investiti in fondi in Italia. All’interno di questa quota, la stragrande maggioranza – oltre il 90% – è costituita da fondi Articolo 8, per un valore complessivo che si avvicina ai 600 miliardi di euro di asset in gestione.
L’entrata in vigore della nuova normativa sul naming dei fondi contribuirà indubbiamente a rendere i prodotti più intellegibili e immediatamente riconoscibili per i sottoscrittori e per tutti coloro che sono chiamati a valutarli. L’obiettivo primario delle SGR, in linea con le nuove disposizioni, è stato quello di assicurare una maggiore trasparenza e chiarezza, offrendo agli investitori un’informazione più accessibile sin dalla denominazione del prodotto.
Sebbene la documentazione d’offerta, come i prospetti informativi e le disclosure previste ai sensi degli Articoli 8 e 9 della SFDR, sia già di per sé molto dettagliata, questa normativa semplifica l’identificazione delle caratteristiche salienti di un fondo attraverso l’impiego di una terminologia specifica e coerente già nel nome del fondo. Ciò consente agli investitori di formarsi un’opinione più precisa sul prodotto fin dal primo approccio, agevolando il processo di valutazione. Naturalmente, la denominazione rappresenta solo un primo livello di informazione, che andrebbe sempre approfondito attraverso un’attenta lettura della documentazione di trasparenza. Tuttavia, si tratta di un passo significativo verso una maggiore comprensione e fruibilità degli strumenti di investimento sostenibile. La versione definitiva della norma si allinea sostanzialmente alle nostre aspettative. Inizialmente, si sono resi necessari alcuni chiarimenti da parte dell’ESMA su taluni aspetti, ma nel complesso il quadro normativo appare ora sufficientemente chiaro per gli operatori, che si stanno progressivamente adeguando.
Ciononostante, come spesso accade con le nuove regolamentazioni, permangono alcune aree interpretative che potrebbero beneficiare di una maggiore definizione. Mi riferisco, ad esempio, alle incertezze concernenti i cosiddetti termini “evocativi” che rimandano all’ambito ambientale e/o sociale, in assenza di un elenco preciso ed esaustivo dei termini e delle relative categorie di appartenenza. Tuttavia, questo rientra nel naturale processo di applicazione e affinamento della normativa, e ci aspettiamo che eventuali dubbi residui vengano chiariti nel tempo attraverso ulteriori indicazioni o best practice di mercato.
E’ doveroso ribadire che quella della Commissione è, al momento, solo una proposta e non una normativa definitiva. Il testo dovrà ancora essere esaminato dal Parlamento e dal Consiglio, il che lascia spazio a eventuali modifiche. Da parte nostra, auspichiamo che vi sia l’opportunità di riconsiderare alcune delle decisioni proposte, che in certi casi sembrano eccedere le legittime aspettative di semplificazione espresse dagli stessi operatori del settore.
Abbiamo accolto con favore la riduzione del carico di informazioni dettagliate richieste alle imprese, che in alcuni frangenti risultava eccessivo rispetto all’effettivo fabbisogno informativo degli investitori. Tuttavia, la drastica contrazione del numero di imprese obbligate alla rendicontazione potrebbe ingenerare effetti negativi, in particolare per gli investitori istituzionali, come gli asset manager, che necessitano di dati affidabili per valutare sia i rischi ESG a cui sono esposti gli asset, sia le opportunità di investimento sostenibile offerte dalle aziende.
Riteniamo auspicabile il mantenimento di un perimetro più ampio di soggetti tenuti alla rendicontazione, pur riconoscendo la necessità di alleggerire taluni oneri informativi e di dare piena attuazione al principio di proporzionalità. Il rischio di una restrizione eccessiva, infatti, è quello di ostacolare la concreta implementazione delle strategie di investimento sostenibile, compromettendone sia l’approfondimento, sia la possibilità di monitorarle e rendicontarle in modo efficace.
Al momento, non disponiamo di certezze in merito alle modalità di attuazione della revisione della SFDR, che disciplina la trasparenza ESG richiesta agli operatori dei mercati finanziari e relativa ai prodotti di investimento. Due anni fa, la Commissione Europea aveva avviato il processo di revisione con un documento preliminare, cui sono seguite consultazioni da parte delle autorità di settore. Sembrava delinearsi un percorso concreto verso un aggiornamento normativo significativo, ma nel corso del tempo la priorità si è spostata sulla revisione della normativa concernente la trasparenza richiesta alle imprese, relegando temporaneamente in secondo piano la SFDR.
Alla luce di questo mutato approccio da parte della Commissione, resta da comprendere se la bozza di revisione della SFDR rimarrà inalterata o se verrà adattata in linea con una visione più “light” sulla trasparenza richiesta alle imprese, come sembra emergere da altre recenti iniziative normative. Un’ulteriore ipotesi è che la revisione segua l’orientamento tracciato nella consultazione, ovvero il mantenimento dell’impianto attuale della trasparenza con alcuni aggiustamenti e, eventualmente, l’introduzione di un sistema di categorizzazione dei prodotti, al fine di renderli più facilmente classificabili e riconoscibili per gli investitori. Al momento, restiamo in attesa di ulteriori sviluppi per discernere quale direzione verrà effettivamente intrapresa.
Al momento, l’ondata anti-ESG che sta emergendo nel contesto statunitense rimane piuttosto circoscritta e non sta esercitando un impatto significativo sulla domanda di prodotti di risparmio gestito in Italia. Nel nostro Paese, il mercato continua a manifestare un solido interesse per gli investimenti ESG: circa la metà degli asset è tuttora investita in prodotti classificati come sostenibili, e gli investitori istituzionali esprimono una costante attenzione verso queste strategie. Le società di gestione, d’altro canto, operando sui mercati globali, si stanno attrezzando per affrontare al meglio il nuovo contesto.
In Europa, se da un lato si osserva una maggiore enfasi sugli aspetti di competitività nelle linee strategiche delineate dall’Unione Europea, come si evince dalla revisione della SFDR e della CSRD, dall’altro non si riscontra un vero e proprio rigetto degli investimenti ESG, come invece sta avvenendo negli Stati Uniti. La strategia europea, il cosiddetto EU Compass per la competitività europea, sottolinea l’intrinseca connessione tra sostenibilità, concorrenza e innovazione. Un elemento cruciale da evidenziare è che, nonostante il Pacchetto Omnibus e la proposta di riduzione degli obblighi di trasparenza e rendicontazione, il principio fondamentale della normativa europea – l’approccio della doppia materialità – è stato preservato. Ciò implica che, nell’attività di investimento, continueranno ad essere valutati sia i rischi ESG a cui le imprese sono esposte, sia il loro impatto sull’ambiente e sulla società. Anche qualora il numero di soggetti obbligati alla rendicontazione dovesse essere ridimensionato, l’impianto normativo europeo mantiene questo orientamento, concentrando gli obblighi sulle realtà di maggiori dimensioni, ovvero quelle con un rischio sistemico e un impatto potenziale più elevati.
Questa distinzione è cruciale rispetto al contesto internazionale, dove l’attenzione è spesso limitata alla sola gestione del rischio ESG, trascurando l’importanza di considerare in egual misura l’impatto delle imprese. Il mantenimento dell’approccio della doppia materialità rappresenta, pertanto, un tratto distintivo della normativa europea e un elemento fondamentale per il futuro degli investimenti sostenibili.