Deve essere avvenuto un corto circuito di cui non ci siamo accorti in tempo anche qui in Italia. Più o meno dopo la pandemia abbiamo cominciato a registrare un numero più elevato di episodi di violenza domestica (e non solo femminicidi) e di violenza tra i giovani in strada. Non è tanto l’aumento numerico quello che qui interessa quanto che il fenomeno mostra una incapacità dei singoli di risolvere i conflitti in un modo civile attraverso il confronto e non lo scontro.
Poiché da decenni abbiamo abbandonato nella formazione dei giovani come anche nella società stessa la conoscenza dell’educazione civica che insegna ai cittadini di ogni età le regole di comportamento con gli altri e le funzioni delle Istituzioni che compongono lo Stato, la Nazione e l’essere Popolo con il rispetto della propria storia e della propria cultura. Se tutto questo bagaglio di conoscenze civili viene lasciato a terra, dopo pochi decenni l’atteggiamento prevalente non può che essere quello della prevaricazione e della sopraffazione dell’altro attraverso la violenza. Violenza che si traduce spesso nel tentativo di eliminazione fisica dell’avversario poiché si reputa che solo in questo modo si abbia soddisfazione delle proprie ragioni e della propria rabbia repressa. E’ una mancanza di strumenti cognitivi a disposizione dei singoli e della collettività, incapace quest’ultima di dare segnali di riprovazione significativi in grado di contenere il fenomeno e di determinare il cambio divenuto necessario. Assistiamo invece alla notizia di cronaca ma poi perdiamo il seguito dell’evento violento se non nella sua dimensione meramente processuale nei tribunali, senza mai interrogarci collettivamente sulla portata degli eventi.
Questi fenomeni però alimentano la paura collettiva che genera a sua volta (qui la spirale malefica) altra violenza e chiusura. La nostra società, la percezione di ognuno di noi è ora nella inevitabilità dell’evento vissuto ancora come la somma di episodi individuali o di gruppo e nell’adozione di misure di protezione dalla violenza tanto degli sconosciuti quanto dei vicini o dei familiari stessi. Paura e chiusura viaggiano insieme. Si unisce anche la recessione economica con l’effetto di minori risorse per le famiglie e gli individui e la miscela diventa “dinamite” sociale.
Mentre noi tutti non ci interroghiamo, la Chiesa parte con il Giubileo della speranza. Speranza che essendo una virtù teologale, insieme a fede e carità, spinge l’uomo credente nella fiducia nella salvezza. La speranza dice Papa Francesco “È la più umile delle tre virtù teologali, perché rimane nascosta”. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio (Rm 8,19)”.
Tuttavia nel mondo occidentale fortemente secolarizzato questa speranza ha una serie di contraltari che cominciano dai detti popolari ( chi di speranza vive muore disperato – chi si pasce di speranza, muore di fame, ecc. ) che la indicano come una “illusione” buona per ingenui e creduloni , togliendola di fatto dagli strumenti di conoscenza ai quali ciascuno può attingere per risolvere molte delle difficoltà della vita.
Se non avessimo la speranza di una condizione migliore, fosse anche solo quella materiale, non metteremmo molte energie nel raggiungere obiettivi che ci sembrano irraggiungibili; se non avessimo speranza di fronte alle guerre non cercheremmo tutti i modi per raggiungere la pace, ecc. I molti esempi che vengono in mente contraddicono i detti popolari circa l’inutilità della speranza ma allo stesso tempo non offrono praticamente strumenti per la sua applicazione se non la volontà del singolo.
Ma nel secolo scorso si parlava ancora di “speranza di un Popolo” ed ora gli unici esempi che vengono in mente sono quelli dei popoli che sperano di fondare uno Stato autonomo nel territorio dove vivono e dove sono cresciute le loro tradizioni e la loro cultura: esempio per tutti gli Armeni e i Palestinesi.
Le “speranze” dei Popoli sottomessi naufragano contro gli interessi mondiali di pochi, poiché proprio in questo decennio è divenuto evidente che l’impostazione autoritaria degli Stati forti (economicamente e/o militarmente) condiziona la vita di tutte le altre Nazioni, che vedono svanire senza poter reagire la “loro speranza” di vita migliore e financo della libertà. E le società assorbono il colpo della speranza svanita con un aumento della violenza e della paura. Quando leggiamo i giornali nazionali e locali o ci avventuriamo in quelli internazionali, non possiamo non vedere quel “fil rouge” che lega violenza paura e speranza, dove ci sono le prime due la speranza non ha posto se non in pochi , quando la speranza è presente in molti, le prime due sono relegate a pochi. Riflettiamoci.