Lavoro come docente universitario nel Regno Unito da alcuni anni. Senza un’esperienza diretta o senza essersi adeguatamente informati, molti potrebbero pensare che le università all’estero siano simili a quelle italiane — lo credevo anch’io prima di trasferirmi in Inghilterra. In realtà, non è così.
Nelle università del Regno Unito l’organizzazione ricorda, per certi aspetti, quella di un liceo italiano. Gli esami sono numerosi e quasi sempre scritti. Quando uno studente non supera la prova, deve sostenerla nuovamente a settembre, in modo simile a quanto accade con i “debiti scolastici” nelle nostre scuole superiori. Se fallisce anche al secondo tentativo, rischia di dover ripetere l’intero anno, esattamente come avverrebbe con una bocciatura. Non è consentito rifiutare un voto o non presentarsi all’esame, e spesso il giudizio complessivo su una materia deriva da più prove: uno scritto, una mini-tesina, una presentazione o un test a scelta multipla. Gli esami orali non sono previsti.
Tuttavia, c’è una differenza ancora più importante. Il sistema britannico è chiaramente incentrato sugli studenti e, almeno in linea teorica, sul loro benessere e sulla loro soddisfazione. Viene richiesto loro un feedback costante, come se partecipassero direttamente alla pianificazione dei programmi e dei metodi di insegnamento. Questo porta indubbi vantaggi in termini di attenzione all’esperienza individuale, ma alimenta anche una filosofia educativa che rischia di sconfinare in un eccesso di tutela. Infatti, il supporto offerto – che include corsi sviluppati sulla base dei feedback degli studenti, attività di tutoring, orientamento, piani di studio talvolta personalizzati, assistenza costante e uffici sempre disponibili a risolvere qualsiasi problema – risulta talmente meticoloso da poter apparire in alcuni casi quasi eccessivo o persino controproducente. Un simile approccio finisce infatti per snaturare le difficoltà intrinseche dello studio, contribuendo negli anni a un abbassamento del livello medio di preparazione e a un’esperienza educativa percepita da molti come troppo semplificata ed appiattita.
In Italia, al contrario, il sistema universitario è ancora organizzato principalmente in funzione della trasmissione della conoscenza, più che sulle esigenze individuali dello studente. Lo studente non stabilisce i ritmi, ma deve adattarsi a un insieme di regole accademiche che, in un certo senso, riflettono l’idea stessa di formazione in senso classico. Negli anni sono stati introdotti alcuni miglioramenti e una maggiore attenzione alla soddisfazione degli studenti, ma in misura molto più limitata rispetto a quanto avviene all’estero. Di conseguenza, l’università italiana continua a concepire lo studio come una sfida impegnativa, capace di offrire gratificazioni profonde nel medio e lungo periodo, piuttosto che come un’esperienza progettata per essere il più possibile piacevole e flessibile nel presente.
Da questa contrapposizione nasce un interrogativo fondamentale: quale dei due modelli prepara meglio lo studente alla vita professionale e personale? Il sistema britannico ha come pregi l’inclusività, la riduzione dello stress e lo sviluppo di abilità come il lavoro di gruppo. Il modello italiano, invece, pur apparendo più rigido e talvolta “antiquato” secondo gli standard pedagogici in voga, educa alla perseveranza, al senso di responsabilità e alla capacità di affrontare difficoltà senza aspettarsi che vengano necessariamente semplificate da altri.
Una risposta banale sarebbe invocare una via di mezzo: né un approccio che vizi lo studente illudendolo che lo studio e la vita in generale debbano essere “user friendly”, né un modello che trascuri completamente i bisogni individuali trasformando lo studio in una prova di sopravvivenza.
Tuttavia, se consideriamo la qualità della formazione, il sistema italiano conserva un valore che non può essere trascurato. È proprio grazie a questa impostazione più rigorosa che molti professionisti formatisi in Italia dispongono di solide basi culturali e tecniche, tuttora apprezzate e riconosciute all’estero, anche se le università italiane raramente compaiono ai vertici delle classifiche internazionali (ma anche sulle classifiche internazionali ci sarebbe molto da dire).
Ed è per questo che, nonostante si parli spesso soltanto delle gigantesche falle del nostro sistema universitario, per una volta voglio elogiare con fermezza un suo punto di forza: l’università italiana, con tutti i suoi limiti, resta un baluardo di competenza e di serietà accademica, ancora immune a pratiche di dubbia utilità. Forse, dovremmo considerare il sistema italiano come un punto di partenza per ripensare l’università del futuro…