I giovani che nei giorni scorsi sono scesi in piazza per protestare contro l’invasione della Palestina da parte dello Stato di Israele appartengono a quella che viene chiamata “Generazione Z”. Nati tra il 1997 e il 2012, hanno visto il telefono a tasti diventare uno smartphone con l’intelligenza artificiale, le videocassette venire sostituite dai siti di streaming, il vetro diventare plastica, e poi la plastica diventare carta.
Hanno anche sempre visto la violenza, la guerra e la morte.
Nati subito prima o subito dopo l’attacco alle torri gemelle, le instabilità politiche in medio oriente sono state presenti in tutti i telegiornali della loro infanzia, adolescenza e, ora, età adulta.
Eppure una parte della scena mondiale è diversa. Ora si spara anche in Europa.
Una guerra d’invasione così vicina, non solo geograficamente, a noi, è una novità, essendo oramai assuefatti alla pax europea dei precedenti settantacinque anni. Questo non significa che la guerra l’Europa avesse smesso di farla, anzi, ma finora la avevamo sempre “esportata”.
Questo mutamento di scenario è necessario a spiegare il sentimento di inquietudine e l’accresciuta sensibilità nelle nuove generazioni rispetto al mondo in cui vivono, ma non sufficiente.
Vanno menzionati infatti anche i tanto ingiustamente vituperati social media, che dall’utente consapevole possono essere utilizzati per informarsi in diretta, per condividere le proprie opinioni, per creare reti di discussione e, persino manifestare il proprio dissenso.
Proprio il dissenso è infatti il sentimento prevalente tra i “Gen Z”, che non sentono talvolta di appartenere a un sistema sociopolitico che ha così tanta paura di scomparire, consapevole dei propri vizi e difetti, prevaricanti per numeri e per qualità sui propri vezzi e pregi, che non si mette più in discussione, non si impegna più per migliorarsi.
Al contrario, investe tutti i propri sforzi in una gattopardiana, sterile autoconservazione, spendendo il minimo indispensabile per parlare di temi di attualità, non tanto come medicina per il proprio male, ma come palliativo per la fine imminente.
Questo vecchio ordine, che in eremitico silenzio troneggia sulle vite di ragazzi e ragazze, da protagonisti ridimensionati a meri spettatori, non è più percepito come il vecchio saggio, col bastone che regge il peso della propria conoscenza e la mano che indica la via.
Viene invece visto da molti come un gigante che dorme, inerte al rumoreggiare del mondo esterno, sordo alle richieste e cieco alle sofferenze.
In quest’ottica, il tumulto nelle strade, il baccano non va interpretato come un disturbo del quieto vivere, ma come un ultimo, stremato, impetuoso tentativo di destare il gigante dal suo sonno. La retorica del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” di andreottiana memoria fatica talvolta a reggere, di fronte a una società di giovani più informati, ma non sempre più consapevoli, con più mezzi e anche con più fini rispetto al passato.
In questo idilliaco scenario di battaglia consapevole manca però una parte fondamentale dell’equazione: l’unità. Il panorama internazionale e nazionale, complesso e articolato, porta facilmente alla disgregazione ideologica, allo sgretolamento del fiume di idee in torrentelli di opinioni, fino a diventare rigagnoli di pensieri.
La voce dei giovani della società odierna, qualora riuscisse a trovare coesione tra le proprie parti più profonde, sarebbe di una potenza inaudita. Potrebbe svegliare gli animi più passivi, potrebbe scuotere le coscienze delle generazioni precedenti, e forse, un giorno, potrebbe persino destare il gigante che dorme.
Perchè il problema non è il rumore della gioventù, ma il sonno del gigante.